“Ma, in caso di allarme Vesuvio, dove dobbiamo scappare? E con strade così congestionate, senza vie di fuga, come facciamo ad evacuare?”. Per diciannove anni ho diretto l’Ufficio Protezione civile del Comune di Torre del Greco e, per diciannove anni, queste insensate domande erano all’ordine del giorno. Sul perché della loro insensatezza ci arriviamo tra un attimo. Intanto, soffermiamoci sulle dichiarazioni del Governatore De Luca a proposito del rinvio del completamento della strada statale 268 del Vesuvio: «Il Governo ha stoppato decine di infrastrutture in questa regione, tra cui la statale del Vesuvio, la via di fuga che in caso di pericolo servirebbe ad evacuare 800mila persone. […] Ma come si fa? Come è possibile che non sia una priorità questa?».
Tralasciando le considerazioni sulla reale utilità di questa strada nella vita di tutti i giorni e sulla probabilità che diventi un nuovo asse di urbanizzazione, poniamoci una domanda: ma davvero questa strada potrebbe servire in caso di allarme vulcanico? Intanto non si comprende come possa accelerare il defluire della popolazione dei comuni vesuviani interni verso l’area nolana, essendo circolare e non radiante; poi ci sarebbe da domandarsi se una, più o meno rapida, evacuazione, possa essere “la Soluzione” in caso di “allarme vulcanico”.
Intanto, quando dovrebbe partire questa evacuazione? L’attuale, strampalato, “Piano di emergenza Vesuvio” prevede l’allontanamento di TUTTA la popolazione in caso di “allarme vulcanico” scaricando sui vulcanologi (INGV-Osservatorio vesuviano) il compito di proclamare questo allarme.
Ma una crisi vulcanica è sempre caratterizzata da una situazione di INCERTEZZA in quanto una eruzione è sempre preceduta – mesi prima del suo manifestarsi – da “fenomeni premonitori” (terremoti, fumarole, bradisismi… ) che, comunque (vedi i bradisismi di Pozzuoli del 1970 e del 1983) possono anche rientrare senza che l’eruzione si manifesti. In molti paesi esposti a rischio vulcanico (e dove la pianificazione dell’emergenza è una cosa seria) si rimedia a questo problema prevedendo un progressivo e calmo allontanamento di fasce di popolazione secondo criteri di VULNERABILITA’: si allontanano dapprima le persone gravemente inabili (handicappati gravi, detenuti) poi, se è il caso, si chiudono alcuni reparti ospedalieri che ospitano malati difficilmente trasportabili e si svuotano gli ospizi; se la situazione peggiora ulteriormente si chiudono tutte le strutture ospedaliere; poi si allontanano i bambini con le madri, si chiudono le scuole e, infine, se è il caso, si ordina l’evacuazione della popolazione rimasta sul posto.
Questa soluzione risolve parecchi problemi. Intanto, evita un “falso allarme” che costringerebbe centinaia di migliaia di persone ad evacuare caoticamente e inutilmente; poi permetterebbe la permanenza in zona di persone abili che potrebbero salvaguardare la propria abitazione; infine permetterebbe una più precisa previsione dell’eventuale eruzione (previsione che è sempre più attendibile man mano che si avvicina l’eventuale fase eruttiva).
Peccato che, invece, l’attuale Piano di emergenza Vesuvio, promettendo una immediata e indiscriminata evacuazione, dia legittimità alle paure e alle insensate domande di cui sopra.
Intanto, nonostante la giusta proposta di non deportare in lontane regioni le popolazioni vesuviane, si va avanti con i “gemellaggi”, si annunciano strampalate “esercitazioni di evacuazione” e si buttano 4,8 milioni di euro per rifinanziare (già erano stati spesi 15 milioni di euro) piani comunali di protezione civile che, forse, non servono a niente.
Francesco Santoianni
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